29 marzo 2021
Autorizzati dal suo autore pubblichiamo il contributo
dell’avvocato Lazzara sul tema attualissimo dei vaccini e delle
conseguenze da riconnettersi al rifiuto di vaccinarsi da parte del
lavoratore. Ne Il Sole 24 del 9 marzo 20121
Con imperfetto senso di tempestività, allo stesso modo in cui si discute
del da farsi con chi non vorrà fare il vaccino prima di averlo
assicurato a tutti quelli che, invece, correrebbero a farselo inoculare,
il dibattito giuslavoristico si accende opportunamente intorno al tema
delle possibili conseguenze a carico dei lavoratori che non vorranno
sottoporsi al trattamento sanitario anti virus e, di conseguenza, alle
facoltà esercitabili da parte datoriale.
I due schieramenti appaiono ben delineati: da un lato chi sostiene il
dovere derivante al datore ex articolo 2087 del codice civile di
preservare la salute dei propri dipendenti anche imponendo la profilassi
sanitaria, dall’altro chi argomenta che, in assenza di un obbligo di
legge a subire la vaccinazione compatibile con il precetto dell’articolo
32 della Costituzione, nessuna conseguenza pregiudizievole può ricadere
su chi non vi si sottopone.
Nel mezzo si colloca la posizione, fortunatamente non ancora assistita
dal crisma dell’ufficialità, del Garante per il trattamento dei dati
personali che si è subito affrettato a chiarire come il datore non possa
chiedere informazioni sullo stato vaccinale dei dipendenti né procedere
al trattamento dei dati relativi alla vaccinazione sulla base di
informazioni ricevute dai lavoratori.
A sua volta, secondo il Garante, nemmeno il medico competente può
fornire un elenco dei vaccinati dovendosi al più egli limitare ai soli
giudizi di idoneità alla mansione specifica cui il datore dovrà
adattarsi.
La tesi non è in alcun modo condivisibile e, soprattutto, pretende di
regolare con canoni tradizionali una situazione di assoluta e
straordinaria emergenza che, nell’interesse collettivo, dovrebbe
sollecitare maggiore prudenza nell’addentrarsi con il fioretto di un
formalismo esasperato su di un terreno in cui si combatte selvaggiamente
con artiglieria pesante.
Premesso che, in ogni caso, sarebbe certamente auspicabile l’intervento
regolatorio del Legislatore, ci sono almeno due ulteriori prospettive
che appaiono meno considerate.
La prima è che un’altra regola costituzionale e, cioè, quella
dell’articolo 41, considerato unitariamente e non limitandosi al
principio della libertà dell’iniziativa economica, impone a quest’ultima
di svolgersi in modo idoneo a non contrastare l’utilità sociale e senza
arrecare danno alla sicurezza, oltre che alla libertà e alla dignità
umana. Non solo si è liberi di assumere iniziative economiche ma lo si è
nella misura in cui queste siano funzionali all’utilità e alla
sicurezza della società e delle persone. Fermo restando che, in ogni
caso, lo stesso art. 32, sul quale si fonda la tesi contraria
all’obbligatorietà, considera la tutela della salute, non solo come
diritto individuale ma anche in quanto “interesse della collettività”.
Da qui, a mio, avviso, non solo il diritto ma anche il dovere di
prescrivere la vaccinazione per i dipendenti posto che l’iniziativa
economica, per essere tale e, dunque, risultare sicura per gli individui
e utile socialmente per la collettività, necessita di un
contingentamento preventivo della forza lavoro, nel senso che sussiste
il diritto-dovere di arginare l’incidenza dell’imprevisto che intervenga
a abbassare il numero degli occupati e, quindi, la necessità di
assumere preventivamente tutte le misure necessarie per contenere il
rischio di morbilità.
Diversamente, a finire in discussione sarebbe la stessa continuità
aziendale che, in caso di diffusione interna del contagio,
realizzerebbe, questa sì, un vulnus irrimediabile alle libertà
costituzionali che si basano sull’essenzialità del lavoro quale
dichiarato valore fondante della Repubblica.
Senza lavoratori viene meno l'iniziativa economica ma senza iniziativa economica viene meno il lavoro.
La seconda è che, ricondotta la fattispecie all’equilibrio fra distinti
principi di rango costituzionale, occorre necessariamente trovare un
bilanciamento “privatistico” dei contrapposti interessi negoziali,
ravvisando quale fra i due inadempimenti debba essere considerato
prevalente sull’altro: l’azienda che non tutela la salute dei dipendenti
(e, dunque, se stessa) non prescrivendo l’obbligatorietà, o il
lavoratore che mette a rischio la salute dei suoi colleghi e la stessa
continuità aziendale (con riflessi diretti anche sugli equilibri
occupazionali) rifiutando il vaccino?
Il tema, dunque, non risolvibile attraverso la suggerita opportunità di
assegnare al lavoro agile il dipendente che rifiuta la prestazione posto
che, anche in questo caso, sussiste uno specifico obbligo di
cooperazione a carico del lavoratore che deve preservare la sicurezza
della prestazione, va affrontato anche sotto il diverso profilo
dell’inadempimento del lavoratore che non pone in essere tutte le
cautele necessarie ad assicurare il dovere impostogli dalla legge di
concorrere attivamente alla sicurezza dei suoi colleghi e dell’ambiente
di lavoro (non solo articolo 2087 del codice civile ma anche il Testo
unico sulla sicurezza sul lavoro).
Vero è, poi, che l’adempimento diligente di siffatti obblighi postula
espressamente che lo stesso debba essere valutato in relazione alle
regole derivanti dalla esperienza e dalla tecnica individuati come
strumenti necessari proprio per tutelare la salute del lavoratore
L’articolo 2087 del codice civile, infatti, introduce il criterio di
adeguamento delle scelte datoriali alle regole dettate dall’esperienza e
dalla tecnica, con implicito ma immediato riferimento proprio
all’acquisizione di nuove consapevolezze da parte della scienza.
Il rinvio all’osservanza delle regole di scienza, necessariamente
suscettibile di valutazione discrezionale, dà comunque luogo a un onere
di assolvimento di un determinato compito imposto dall’ordinamento ma
necessario a realizzare un interesse non solo proprio ma anche altrui.
Il rifiuto al vaccino, quindi, si configura come una forma di “grave”
inadempimento al perdurante dovere di diligenza richiesto al lavoratore
nell’espletamento della sua prestazione in forza dell’articolo 2104 del
codice civile che, si rammenta, fa esplicito riferimento all’interesse
dell’impresa e a quello superiore della produzione nazionale.
Coerentemente con l’osservanza del principio generale che regola il
dovere di cooperazione fra contraenti, dunque, l’impegno e l’onere di
richiedere e subire la vaccinazione non potranno che essere reciproci,
seppur, ovviamente, per quanto di ragione, ma il loro assolvimento non
potrà essere rimesso al solo obbligo datoriale ex articolo 2087 del
codice civile, costituendo piuttosto un più esteso, comune e
generalizzato dovere di diligenza (anche) del lavoratore che,
vaccinandosi, eviterà di assumere condotte imprudenti e idonee a mettere
a rischio la sicurezza sua, dei colleghi e della stessa continuità
aziendale. Pena, appunto, il possibile licenziamento.
Giovanni Lazzara
Avvocato in Roma