L’applicazione del comporto ordinario ad un dipendente disabile costituisce discriminazione indiretta: la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili converte il criterio del computo del comporto, apparentemente neutro, in una prassi discriminatoria nei confronti di un particolare gruppo sociale protetto.
Lo sancisce la Corte di Cassazione con la sentenza n. 11731/2024. I giudici ricordano come il legislatore abbia imposto ai datori pubblici e privati l’adozione di ogni ragionevole accomodamento organizzativo per garantire il mantenimento del lavoro per il dipendente disabile e per assicurare alla parte datoriale una prestazione lavorativa utile all’impresa, senza comportare oneri finanziari sproporzionati.
L’adozione degli accomodamenti ragionevoli prevede l’onere del lavoratore di dimostrare le limitazioni derivanti dalle proprie menomazioni fisiche, mentali o psichiche. A riguardo, il legislatore (art. 40 del dlgs. 198/2006) ha stabilito un’attenuazione dell’onere probatorio gravante sul dipendente, prevedendo l’onere datoriale di dimostrare l’inesistenza della discriminazione nel caso in cui il lavoratore abbia fornito al giudice elementi di fatto idonei a fondare la presunzione dell’esistenza di atti discriminatori.