Relazione di Enzo Morrico, Presidente di AGI Lazio al WP del Convegno Nazionale Agi su “La disciplina organica dei contratti di lavoro e la revisione della normativa in tema di mansioni”

26 giugno 2015

Generico ,

Relazione di Enzo Morrico, Avvocato Cassazionista e Presidente di AGI Lazio

 Ringrazio AGI Nazionale per avermi dato l’opportunità di coordinare uno dei quattro Work Shop di questo Convegno, interessantissimo e di particolare attualità.

 Ringrazio, altresì, i partecipanti che sono sempre numerosissimi, attratti non solo e non tanto dagli argomenti, ma soprattutto dal richiamo   che i nostri Relatori attirano, ai quali va il mio personale ringraziamento per la consueta disponibilità sempre manifestata nell’accettare di   intervenire ai nostri convegni (il Prof. Speziale è oramai un “Relatore abituale” e ci auguriamo che lo diventi anche la Prof.ssa  Salimbeni).

 Il nostro WokShop, a differenza di altri, suscita un interesse particolare   in quanto -come tutti sappiamo- verrà a brevissimo pubblicato il D. Lgs.  recante “La disciplina organica dei contratti di lavoro e la revisione della normativa in tema di  mansioni[1], mentre sappiamo che, esattamente giovedì scorso, è stato approvato dal Governo ed inviato, per il rilascio dei pareri necessari ma non vincolanti, alle Commissioni delle Camere, lo schema del decreto legislativo (il n. 176) recante disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico dei cittadini ed imprese ed altre disposizioni in materia di lavoro e pari opportunità[2].

Ne consegue che, per quanto concerne il primo tema che tratteremo, abbiamo la sicurezza di poter validamente interpretare un testo immodificabile in quanto definitivo, mentre per il successivo, seppur vi sia la ragionevole certezza che non venga modificato, dobbiamo essere cauti nell’affermare certi principi che potrebbero essere stravolti in caso di modifica.

Sicuramente, però, siamo avvantaggiati rispetto al convegno preparatorio svoltosi a Napoli, poiché almeno adesso abbiamo lo schema di decreto su cui basare i nostri ragionamenti.

Prevengo subito una prima eccezione che potrebbe essere mossa in ordine ai tempi previsti per l’emissione dei decreti delegati previsti dalla legge delega del 10/12/2014 n. 183, ossia sei mesi, per rilevare che tali termini sono sati rispettati, giusta la previsione contenuta nel combinato disposto dell’art. 1, commi 5 e 11, in base ai quali -con rispetto a quest’ultimo- vi è una proroga di tre mesi laddove, come nel caso di specie, siano stati richiesti i pareri nei termini.

Per venire ai temi da trattare, ritengo che il contenuto di un WokShop abbia il dovere di sollecitare risposte da parte dei Relatori in ordine a problematiche inerenti le nuove normative[3], oltre che presentare una compiuta relazione in ordine alle stesse.

Se ben ho interpretato il mio ruolo, vorrei sollecitare il Prof. Speziale nell’ambito della sua relazione ad affrontare specificatamente i seguenti temi:

1)                 Partendo ovviamente dalle legge delega ed in particolare da quanto previsto dall’art 1 comma 7 lettera e) che riguarda le mansioni,  dove in apertura vengono indicati i presupposti, i vincoli e la ratio della norma, al fine di poter procedere alla modifica dell’inquadramento (rappresentati i primi –i presupposti- dall’evenienza di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale; il secondo –il vincolo- dall’individuazione di parametri oggettivi; il terzo –la ratio- rappresentato dal contemperamento dell’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale, con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche) se sia stato emanato un provvedimento conforme alle indicazioni della delega ricevuta[4].

2)                 Se un po’ tutto il jobs act, ma in particolare la norma delle mansioni (e direi pure sui controlli), segna il definitivo tramonto del tipo di legiferare in materia di lavoro ed in particolare l’abbandono del ricorso alla norma inderogabile generatrice dei diritti indisponibili (si veda in particolare in materia di possibilità di dequalificazione prevista nel sesto comma)[5].

3)                 Se l’abbandono del concetto di equivalenza previsto nella versione statutaria, in base alla quale la giurisprudenza di 45 anni univocamente aveva riconnesso una specifica interpretazione in ordine alla professionalità del lavoratore, abbia come significato la mortificazione di quest’ultima (in tal modo andando in contrasto con i principi costituzionali previsti principalmente nell’art. 35, 2° comma e forse 2, 4 e 41 2^ co., oppure se il legislatore ha mantenuto indenne il principio della (diritto alla) professionalità, ma ha fornito un diverso parametro che non è più quello della monoprofessionalità, ma della pluriprofessionalità[6], delegando la contrattazione collettiva (e probabilmente esortandola a fare, o a fare meglio, il proprio dovere) ad individuare fasce di livelli inquadramentali e di professionalità “omogenee[7] con espresso limite, contenuto in aggiunta al primo schema  di d.lgs.,  di operare nell’ambito della categoria legale  posseduta dal dipendente).

4)                 Se poi tale tecnica è veramente innovativa o se è stata più semplicemente ripresa dal legislatore con riguardo al settore  pubblico, in particolare a quanto previsto nell’art. 52 l. 105/2002, sia nella prima che nella seconda ed attuale versione.

5)                 Se, come fermamente credo, abbia il legislatore volutamente omesso il richiamo-contenuto nella versione statutaria- al divieto di diminuzione della retribuzione, quali effetti produce tale omissione[8].

6)                 Se la professionalità orizzontale, come voluta nel primo comma, sia garantita e tutelata dall’assolvimento dell’obbligo formativo, dove, però, ci si è affrettati a dire che in mancanza non si produce alcuna nullità nell’”atto di assegnazione” (espressione sicuramente infelice ed atecnica[9]), oppure se è sostenibile poter affermare che in mancanza di tale obbligo si possa configurare il verificarsi di quanto previsto dall’art. 1460 c.c. e quindi poter il dipendente validamente rifiutarsi di svolgere le nuove mansioni assegnategli[10].

7)                 Se l’assegnazione a mansioni inferiori previsto nel 2°, 4° e 6° comma rappresenti una vera novità e comunque un arretramento della tutela dei diritti del lavoratore, oppure si traduca semplicemente in una previsione unitaria ripresa da varie fonti legislative precedenti[11]

8)                 Cosa voglia effettivamente significare l’espressione contenuta nel 5^ comma e che sono disciplinate nel 2^ e 4^ comma, laddove si dice che “il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento[12]”.

9)                 Se il richiamo ai contratti collettivi, così come poi meglio specificato nella portata dell’espressione del successivo art. 51, rappresenta una sostanziale diversità rispetto alla formulazione contenuta nella legge delega dell’art. 1 comma 7 lett. c).[13]

10)             Se l’assistenza del rappresentante sindacale, avvocato o consulente del lavoro, rappresenti una sicura garanzia al consenso disciplinato nel comma 6^[14].

11)             Come deve essere interpretata la frase “salvo diversa volontà del lavoratore” espressa nel comma 7°, nell’ipotesi di promozione che a buon titolo non può più essere definita “automatica” e  quanto,  con quali forme farla intervenire per produrre effetti e, soprattutto, quali conseguenze sono ipotizzabili nel caso venga espresso tale diniego[15].

  • oOo

Questi sono gli interrogativi che vengono da me posti al Prof. Speziale mentre i seguenti alla Prof. Salimbeni con riguardo alla modifica dell’art. 4 L. 300/70[16].

1. Quali e quanti sono i vincoli abbassati dalla nuova formulazione dell’art. 4 prevista nello schema di D.lgs. rispetto alla formulazione statutaria; in particolare chiarire la versione statutaria che imponeva un divieto generale superabile esclusivamente ed eccezionalmente dall’accordo sindacale con la formulazione contenuta nello schema di Decreto ultimo in esame dove è previsto che sia legittimo l’utilizzo di ogni strumento, tuttavia ponendo due limiti alla possibilità di utilizzazione di tali dati: a) che tali strumenti siano impiegati per esigenze organizzative e produttive, oppure per la sicurezza o tutela del patrimonio aziendale; b) che l’installazione  sia  autorizzata da un accordo  collettivo sottoscritto con RSU e RSA;

2. Se poi la specifica esclusione di tale autorizzazioni con riguardo agli strumenti di lavoro in effetti comporti un controllo a distanza  sull’attività lavorativa come sostenuto da una, non tanto recente, sentenza del Tribunale di Bergamo (la n. 346/08),  emessa in causa di Poste Italiane, secondo la quale il c.d. elimina code presente negli uffici postali (cioè il tabellone in base al quale si indicava la disponibilità di ogni addetto ad uno sportello a poter compiere l’operazione alla quale era stato destinato), rappresentava un controllo vietato dell’attività lavorativa.

  1. 3.  Infine, chiarire se è stata opportuna la specificazione che non occorre alcuna autorizzazione per quanto riguarda gli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze; così da capire se viene avvalorata la tesi che nella previsione statutaria tali controlli sarebbero violati se non autorizzati da apposito accordo.

Come vedete gli argomenti e gli interrogativi sono molti, mi sbrigo quindi a dare la parola al primo relatore.


[1] In realtà al momento della redazione delle note è stato pubblicato il D.Lgs 81/2015 in oggetto sulla G.U. del 24.6.2015 ed entrato in vigore il 25.6.2015, così come è stato pubblicato il D.Lgs 80/2015 recante misure a tutela della maternità ed a favore della conciliazione fra tempi di vita e di lavoro.
[2] Così come gli altri tre schemi di D.Lgs e segnatamente: quello in tema di servizi per il lavoro e di politiche attive (177); quello in tema di attività ispettiva (178) e quello in tema di riordino degli ammortizzatori sociali (179).
[3] Pare superfluo ricordare che le “mansioni” del lavoratore sono disciplinate nell’art. 2103 c.c. che si trova alla terza modifica rispetto alla versione originaria contenuta nel testo del 1942. La prima, sempre come pacificamente noto, utilizzando la tecnica della “novellazione” il legislatore del 1970 all’interno dello statuto dei Lavoratori all’art. 13 ha modificato la prima versione, ora si accinge a modificarla di nuovo ad opera dell’art. 3 del D. Lgs. di prossima pubblicazione.
[4] Da parte mia ritengo non ci sia stato alcun eccesso di delega poiché il legislatore delegante all’art. 1 comma 7 lett. e) ha previsto la “revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale (espressione questa mutuata in massima parte dall’art. 4 1^ co L. 223/91) individuati sulla base di parametri oggettivi, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento; ….”(omissis), mentre nel D.Lgs si fa riferimento alla “modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore”. Non v’è dubbio che l’espressione utilizzata in sede di decreto delegato sia del tutto conforme a quello previsto dalla legge delega poiché “le modifiche degli assetti organizzativi aziendali” non potranno avvenire se non attraverso delle ristrutturazioni o conversioni aziendali ovvero riorganizzazioni aziendali (aggiungerei anche per crisi dell’azienda).
[5] Sul punto mi permetto di richiamare quanto ha formato oggetto di un mio scritto in ordine al commento alla L. 78/2014 al quale rinvio, frutto di sintesi della relazione al convegno di Genova di AGI Nazionale del 2014 di prossima pubblicazione al momento visibile sul sito di AGI Lazio.
[6] Non più quindi una monoprofessionalità che si stratifica con il passare del tempo su dei presupposti sempre eguali, ma una pluriprofessionalità che consente al lavoratore un arricchimento non già dell’unico bagaglio tecnico , ma di una pluralità di esperienze e conoscenze su più possibili posizioni che tra l’altro gli permettono o comunque lo favoriscono nel rivolgersi al mercato esterno con una maggiore possibilità di trovare altra e magari più idonea collocazione.
[7] Salvaguardando in tal modo il concetto di equivalenza la cui determinazione è stata, replicasi, demandata agli agenti contrattuali nell’ambito di una regolamentazione di primo livello. C’è solo da chiedersi cosa accada in tutti quei casi nei quali non esiste un contratto collettivo di riferimento ovvero il rapporto di lavoro non è disciplinato dal c.c.n.l. di categoria: Ritengo che in tale ipotesi si debba far riferimento comunque, ai fini della legittimità della operazione al contratto di categoria anche se non applicato nel rapporto  e nel caso in cui non dovesse esistere il contratto di categoria (situazione pressoché improbabile), si faccia riferimento a quello più prossimo.
[8] Non v’è assolutamente dubbio che l’omissione non è affatto priva di significato, ma è dettata da una precisa scelta del legislatore il quale ha ritenuto di “abbattere” anche quest’altro principio voluto ed esaltato nella modifica dell’art. 2103 ad opera del legislatore Statutario. Nell’ambito pertanto dello spostamento orizzontale previsto nel 1^ comma della disposizione in esame nel quale è data la facoltà (rectius: diritto) al datore di lavoro di esercitare lo ius variandi con l’unico limite di spostarlo nello stesso livello (e categoria legale) di appartenenza sarà possibile laddove la contrattazione collettiva individui più “fasce salariali” all’interno dello stesso livello di ridurre anche la retribuzione ovviamente sempreché il nuovo inquadramento prevede una minore retribuzione che legittima tale riduzione.
[9] Poiché non si capisce se la nullità si riferisca all’atto di assegnazione oppure, come sarebbe stato più corretto, alla diretta assegnazione delle mansioni richieste.
[10] Per quanto mi riguarda ritengo sicuramente applicabile l’eccezione di inadempimento prevista nella disposizione citata, naturalmente con l’unico limite che le mansioni di assegnazione siano totalmente diverse da quelle di provenienza e l’interessato non abbia le capacità tecniche per svolgerle tanto da rendersi indispensabile l’obbligo formativo. La giustificazione del rifiuto potrebbe infatti essere riconducibile al timore di errori –o più semplicemente di scarso rendimento- nell’espletamento delle nuove mansioni che potrebbe legittimare il datore all’adozione di provvedimenti disciplinare; mentre il rifiuto sarebbe illegittimo laddove il lavoratore comunque possedesse le conoscenze tecniche –seppure non particolarmente approfondite- per lo svolgimento delle mansioni di destinazione. Naturalmente però rimarrebbe sempre salva la richiesta di risarcimento danni da parte del lavoratore per l’illegittimo comportamento datoriale –che permane sino a quando non viene effettivamente ed efficacemente effettuato l’obbligo formativo- secondo le regole del diritto civile.
[11] Personalmente ritengo che il legislatore abbia indubbiamente effettuato un arretramento delle tutele del lavoratore, ma che comunque abbia “generalizzato” un principio già presente in diverse fonti legislative (si pensi all’art. 4, 11^ comma l. 223/91; art. 4 l. 68/1999 per le ipotesi di definitiva assegnazione ed art. 7 D.lgs. 151/2001 per le ipotesi di assegnazione temporanea) o giurisprudenziali (v. Cass. nn.  21700/2006, 5285/2007; 8596/2007 e numerosissime altre). Norme queste di non facile interpretazione poiché, con specifico riguardo a quanto previsto nel comma 2^,  non si capisce se il legislatore nel caso di arretramento al livello inferiore, abbia voluto intendere che sia possibile effettuarlo con riguardo al uno solo livello immediatamente inferiore (come generalmente ritenuto) o possa prevedere anche l’assegnazione a mansioni rientranti in un livello non immediatamente inferiore  sebbene rientranti nella stessa categoria contrattuale e soprattutto quante volte sia possibile effettuare questo arretramento se solo una volta ovvero ogni volta che si sia in presenza di una modifica degli assetti organizzativi che vada direttamente ad incidere sulla posizione del lavoratore. Con riguardo a quest’ultimo interrogativo propenderei per la soluzione che vede sia possibile effettuare più assegnazioni a mansioni inferiori purché ovviamente siano giustificate dalla modifica reale degli assetti organizzativi aziendali incidenti direttamente sulla posizione del lavoratore. Mi chiedo però cosa accada se viene in un momento successivo (anche dopo lungo tempo) ripristinata la situazione precedente –magari con altra modifica degli assetti organizzativi che ripropone integralmente quella precedente- nel senso che si “riespande” il diritto a vedersi riconosciuto il diritto all’inquadramento precedente poiché venuta meno la ragione giustificatrice della dequalificazione. La soluzione non la ritengo agevole anche se posso immaginare –senza avere doti prognostiche- che la giurisprudenza si potrà orientare in tale ultima soluzione laddove, ovviamente si verifichino genuine modifiche e non strumentali al fine di  colpire quel dipendente poiché in tale ultimo caso sicuramente sarebbe la assegnazione a mansioni inferiori illegittima poiché realizzata in frode alla legge.  
[12] Sicuramente l’espressione è poco chiara non tanto con riguardo al trattamento retributivo in atto poiché il legislatore ha previsto non solo la conservazione del livello di inquadramento, ma anche del trattamento retributivo in godimento (operando una ingiustificata disparità con quanto previsto nel primo comma giuste le considerazioni già sopra svolte)  quanto alla dinamica retributiva futura nel senso che non si capisce se all’interessato spetterà l’aumento contrattuale futuro agganciato all’inquadramento che aveva e che “convenzionalmente” gli viene lasciato, ovvero se l’aumento contrattuale spettantegli è quello relativo al livello inferiore dove è stato nuovamente posizionato a seguito della legittima dequalificazione.
[13] Ritengo che sicuramente vi sia una sostanziale diversità dalla formulazione inserita nella prima formulazione contenuta nello schema di decreto inviato alle camere. In quella, infatti, erano sicuramente escluse le RSU ricomprese nel testo vigente ed inoltre vi è la pacifica limitazione, in ordine alla possibilità, anche essa aggiunta, di stipula da parte delle RSA, purché però espressione solamente delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
[14] Non vi è dubbio che il legislatore abbia previsto la sede indicata dal quarto comma dell’art. 2113 c.c. -non perché definisca una rinunzia inoppugnabile da parte del lavoratore quella indicata nel comma in esame- sicuramente per tutelare maggiormente il lavoratore in ordine ad una sua libera scelta scevra da qualsivoglia condizionamento o pressione. Tale principio viene reso ancor più denso di significato nella versione definitiva laddove è stato previsto che il lavoratore nella sede specificata può farsi assistere da soggetti particolarmente qualificati (quale il rappresentante di una oo.ss. al quale ha conferito apposito mandato, un avvocato o un consulente del lavoro). Con riguardo al comma in esame deve essere posto nella dovuta evidenza che l’accordo è possibile solamente per soddisfare un interesse qualificato del lavoratore rappresentato da uno delle tre situazioni specificate dal legislatore: la conservazione del posto di lavoro, l’acquisizione di una diversa professionalità, il miglioramento delle condizioni di vita (criteri questi già presenti nella legge delega). Dove il primo criterio è quello solito previsto per la tutela del posto di lavoro e quindi della occupazione già richiamato nel secondo comma (dove non si capisce bene il discrimine con il licenziamento irrogato per giustificato motivo oggettivo) e presente nell’ordinamento, come sopra rilevato, in diversi specifici casi; il secondo –più di natura teorica che di pratica attuazione, in cui la possibile dequalificazione momentanea potrebbe (ma personalmente nutro seri dubbi) “aprire le porte” a nuovi maggiori traguardi per una nuova, acquisita, diversa professionalità; il terzo, più realistico, per favorire una maggiore qualità di vita del lavoratore (si pensi a mansioni usuranti e/o che comportino per il loro svolgimento un continuo spostamento ecc.). In tale peculiare caso la dequalificazione oltre che comportare anche una possibile diminuzione della retribuzione, non ha il vincolo di essere applicata nell’ambito della categoria legale di appartenenza del lavoratore (per modo che si potrebbe passare dalla categoria dirigenziale a quella impiegatizia etc.).
[15] Come anticipato all’inizio, questo comma -unitamente al precedente- segna il definitivo tramonto della norma inderogabile quale tecnica utilizzata dal legislatore per la migliore tutela del lavoratore e per riequilibrare la posizione dello stesso nell’ambito del rapporto di lavoro nei confronti del datore di lavoro. Innanzi tutto merita rilevare che il legislatore utilizza la tecnica già sperimentata e prevista nell’art. 5 l. 223/91, nel senso che la c.d. promozione automatica (per quel che resta), in ordine alla durata di assegnazione per legittimare la richiesta, viene demandata alla contrattazione collettiva (con rinvio esplicito anche in questo caso al successivo art. 51) e solo in mancanza dopo sei mesi “continuativi” di assegnazione alle mansioni superiori. E’ pacifico che con l’aggettivo “continuativo” non si è voluto dire che il periodo se frazionato non comporterebbe mai l’assegnazione a mansioni superiori, poiché una eventuale siffatta interpretazione verrebbe dichiarata sicuramente nulla in quanto posta In frode alla legge. Mentre, invece, occorre porre nella dovuta evidenza che il periodo previsto dal legislatore è esattamente raddoppiato rispetto al passato e non vi è più il richiamo alla esclusione del lavoratore che “abbia diritto alla conservazione del posto”, ma basta che sia solo in servizio. Con riguardo all’inciso ”salvo diversa volontà del lavoratore” vuol significare che il lavoratore può rifiutare per sempre il superiore inquadramento, ovvero procrastinarlo nel tempo per un periodo diverso da quello previsto dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, dalla legge. Certo, risulta di difficile soluzione capire quando deve essere espressa tale volontà per produrre l’effetto voluto (sin dall’inizio della adibizione alle mansioni superiori, ovvero alla scadenza dei termini previsti per il riconoscimento del diritto, ovvero ancora al momento del riconoscimento da parte del datore di lavoro del diritto acquisito).

[16] Come detto all’inizio, la modifica all’art. 4 della L. 300/70 è prevista nella legge delega all’art. 1 comma 7 lett. f) ed al momento esiste solo la bozza di decreto che è stata inviata alle Commissioni parlamentari per il rilascio dei pareri obbligatori, ma non vincolanti. Ciò vuol dire, unitamente alla considerazione del gran clamore che si sta verificando intorno a questa disposizione, che non è detto che venga poi approvato il testo così come oggi in esame. Ne consegue da un lato che bisogna essere particolarmente cauti nell’esprimere giudizi e/o interpretazioni “certe”, dall’altro che è più opportuno un approfondito commento in un periodo successivo. Per il momento si vuol evidenziare che il legislatore, al quale spetta il potere di porre le regole ha inteso (seppur con i vari limiti in ordine alla possibile violazione dei diritti personalissimi della persona) far riappropriare il datore di lavoro del proprio potere direttivo con la possibilità (peraltro mai negata, ma solamente limitata –a tal uopo si vedano proprio gli artt. 2 e 3 l. 300/70-) di verificare l’attività lavorativa del lavoratore probabilmente con ogni mezzo purché portato dettagliatamente a conoscenza dei lavoratori con “adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli” sempre, però, nel rispetto di quanto previsto dal d.lgs. 196/2003”.

Novità, rispetto al passato, riguarda la certezza –al momento- (in giurisprudenza ci sono state sentenze di segno contrario dove per la negativa la più importante ritengo sia quella espressa da Cass. n.15892/2007) di utilizzazione “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro” e quindi anche –se non soprattutto- a quelli di natura disciplinare, degli accertamenti effettuati sulla attività lavorativa (ritengo che con la previsione contenuta nel secondo comma laddove non è necessaria per gli strumenti utilizzati per rendere la prestazione lavorativa alcuna nessuna necessità di accordo o, in mancanza, delle autorizzazioni, entrambe previste nel primo comma, sia possibile –fornita ampia informativa in cui lo strumento di lavoro debba essere utilizzato in via esclusiva a tal fine- ad .es. controllare la posta attraverso e mail anche per scoprire eventuali comportamenti “non ortodossi” del lavoratore; superando, quindi, l’incertezza giurisprudenziale sul punto sinora emanata v. ad es. Cass. 27392/2013 e contra cass. 26397/2013).

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