Osservazioni: avv. Flaviano De Tina
La sentenza del Tribunale di Udine non mi convince.
Si attribuisce un significato a fatti che, a mio avviso, sono tutt’altro che univoci; anzi, contraddittori: protratta assenza volontaria dal lavoro; mancata risposta alla contestata assenza ingiustificata; invito a dimettersi; noncuranza alla reazione del datore di lavoro “visto il trattamento … riservato”; attesa di una decisione (“poteva provvedervi la società”).
L’affermazione che “appare evidente, quindi, che la ricorrente abbia voluto porre fine al rapporto di lavoro con la società resistente di sua iniziativa” mi lascia, pertanto, perplesso. Oltretutto, valorizzare a questo fine la lamentata prostrazione psicofisica (“ero sfinita, stanca mentalmente e fisicamente”) indotta da una condizione lavorativa, protrattasi per oltre 11, ritenuta dalla ricorrente (indirettamente confermata da una teste) tutt’altro che agevole, pare invero contrastare con la dichiarazione della stessa di data antecedente all’assenza. In sentenza è richiamata la seguente deposizione testimoniale: “io le ho chiesto se pensasse di dare le dimissioni e lei mi ha risposta di no, che saremmo stati noi, eventualmente, a doverla licenziare.” Dunque, voluta era l’assenza non la cessazione del rapporto, tantomeno per volontà unilaterale della lavoratrice.
Il comportamento concludente costituisce una delle modalità di manifestazione della volontà.
L’art. 1, c. 6, L. n. 183/2014 recita: “nell’esercizio della delega….il Governo si attiene ai seguenti principi e criteri direttivi:…… g) previsione di modalità semplificate per garantire data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice del lavoratore”.
L’ art. 26, c. 1, D. Lgs. n. 151/2015 a sua volta stabilisce: “….le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sono fatte, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche…”.
Il decreto legislativo “tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto”, anche “nel caso di comportamento concludente”, ha stabilito che “le dimissioni…sono fatte….esclusivamente con modalità telematiche. In altri termini, il legislatore ha prescluso che “in relazione alle dimissioni” il comportamento concludente possa costituire manifestazione efficace della volontà del lavoratore di risolvere il rapporto di lavoro.
È noto che la regola è la libertà della forma. È altrettanto noto che la legge può imporre una forma speciale come elemento costitutivo del negozio, a pena di nullità. Superfluo ricordare che in ossequio alla centralità del lavoro nel disegno costituzionale (e comunitario) la forma è stata prescritta per il licenziamento, il contratto a termine, il patto di prova, il patto di non concorrenza, l’attribuzione di mansioni inferiori. In questi casi, il comportamento concludente rileva?
Il richiamo in sentenza degli artt. 2118 e 2119 c.c. mi pare trascurabile. Anche il licenziamento “si fonda invero sugli articoli 2018 e 2019 cod. civ.”.
La riferita coartazione della libera esplicazione dell’autonomia imprenditoriale è coerente con i limiti stabiliti dallo stesso art. 41, 1° e 2° c., Cost.. Fosse altrimenti, si dovrebbero riconsiderare anche i limiti al potere di recesso del datore di lavoro e finanche ritenere costituzionalmente imposta una più forte protezione, rispetto alla tutela del lavoro, dell’iniziativa economica privata. Operazione che dovrebbe confrontarsi con il favor del dettato costituzionale nei confronti del lavoro e delle questioni sociali. Solo il diritto del lavoro è inserito tra i principi fondamentali. Per contro, la libertà di iniziativa economica privata è proclamata, come anticipato, in forma già limitata
Infine, reputo l’argomento della surrettizia imposizione al datore di lavoro del ticket NASPI mal posto. Il rapporto di lavoro costituisce il presupposto di fatto del rapporto previdenziale. L’obbligazione contributiva attiene al rapporto previdenziale che intercorre direttamente tra l’istituto previdenziale ed il datore di lavoro. Se la scelta del legislatore di imporre al datore di lavoro il versamento dello specifico contributo previdenziale pure in caso di grave inadempimento del lavoratore non è condivisa, al giudice è pur sempre consentito di sollevare la questione di legittimità costituzionale.
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