La Corte Costituzionale sulla natura retributiva delle somme dovute ai lavoratori ceduti nell’ambito di un trasferimento d’azienda illegittimo

22 marzo 2019

Generico ,

A cura di Elena Giorgi

Corte cost., 28 febbraio 2019, n. 29, Pres. Lattanzi, Rel. Sciarra

È infondata la questione di legittimità costituzionale del “combinato disposto” degli artt. 1206, 1207 e 1217 c.c., per violazione degli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, nella parte in cui limitano al solo risarcimento del danno la tutela del lavoratore ceduto nell’ambito di un trasferimento d’azienda, anche successivamente all’accertamento giudiziale dell’illegittimità o dell’inefficacia dello stesso, costituendo, di contro, “diritto vivente” il principio, recentemente espresso dalle Sezioni unite della S.C., con la sentenza n. 2990 del 7 febbraio 2018, della natura retributiva e non già risarcitoria delle somme dovute dal datore di lavoro che persista nel rifiuto di ricevere la prestazione lavorativa, ritualmente offerta dal lavoratore successivamente all’accertamento giudiziale che abbia ripristinato il vinculum iuris tra le parti.

Trasferimento d’azienda – Illegittimità e/o inefficacia – Effetti – Natura retributiva delle somme dovute ai lavoratori ceduti – Indetraibilità dell’aliunde perceptum.

Artt. 1206, 1207 e 1217 cod. civ.; artt. 3 e 24 Cost.

Con la sentenza interpretativa di rigetto in epigrafe, la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi relativamente alla conformità, o meno, alla Carta costituzionale degli artt. 1206, 1207 e 1217 cod. civ., nella parte in cui non consentono anche nell’ambito dei rapporti di lavoro subordinato di applicare quella disciplina di carattere generale, alla stregua della quale il creditore, in ipotesi di illegittimo rifiuto della prestazione, è tenuto, oltre che al risarcimento del danno, anche - ed in ogni caso - ad eseguire la controprestazione, ha riconosciuto natura retributiva e non già risarcitoria alle somme rivendicate dal lavoratore, in ipotesi di illegittimo rifiuto del datore di lavoro di eseguire l’ordine giudiziale di riammissione in servizio, in sostanziale adesione alla recente sentenza n. 2990, resa dalle Sezioni unite della S.C. il 18 febbraio scorso, la quale, a sua volta, ha qualificato come retributiva la natura delle somme spettanti al lavoratore a seguito dell’accertamento dell’illecita interposizione di manodopera, per l’ipotesi di mancata riammissione in servizio del medesimo, nonostante rituale offerta della prestazione lavorativa.

Con l’intervento delle Sezioni unite, infatti, l’indirizzo interpretativo assolutamente prevalente, che qualificava in termini esclusivamente risarcitori le erogazioni patrimoniali dovute dal datore di lavoro che non proceda al ripristino del rapporto lavorativo, nonostante l’accertamento del vincolo contrattuale e l’ordine giudiziale in tal senso, è stato rimeditato in una prospettiva costituzionalmente orientata, a fronte della affermata esigenza di porre rimedio all’incoercibilità del comportamento omissivo datoriale.

Secondo il ragionamento seguito dalla S.C., benchè, in effetti, il principio di corrispettività, “che permea di sé il contratto di lavoro”, sembrerebbe imporre di qualificare in termini meramente risarcitori l’obbligazione del datore di lavoro che ometta di eseguire l’ordine giudiziale  di riammissione in servizio dei lavoratori, tuttavia, l’esigenza di evitare che questi ultimi subiscano, in virtù dei principi generali in tema di adempimento contrattuale, le ulteriori conseguenze sfavorevoli derivanti dalla condotta omissiva del datore di lavoro (quale, ad esempio, la detraibilità dell’aliunde perceptum che il lavoratore abbia conseguito svolgendo qualsiasi altra attività lavorativa), imporrebbe di riconoscere natura retributiva alle predette somme, con la conseguenza che “sul datore di lavoro che persista nel rifiuto di ricevere la prestazione lavorativa, ritualmente offerta dopo l’accertamento giudiziale che ha ripristinato il vinculum iuris”, continuerebbe, dunque, “a gravare l’obbligo di corrispondere la retribuzione”.

Di qui, l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, in quanto insorta antecedentemente al sopradescritto intervento delle Sezioni unite che, superando definitivamente l’indirizzo interpretativo consolidato e prevalente della natura risarcitoria dell’obbligazione del datore di lavoro moroso, ha ricondotto “a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della mora del creditore nel rapporto di lavoro”, consentendo di risolvere definitivamente “in via interpretativa i dubbi di costituzionalità prospettati”.

 

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