Il “furbetto del cartellino” non merita il licenziamento automatico

La sanzione disciplinare del licenziamento, ancorché derivante da comportamenti astrattamente meritevoli di licenziamento secondo la lettera della legge, non può mai derivare da automatismi e non può violare il criterio di proporzionalità. Il principio giurisprudenziale, ripetutamente affermato dalla Cassazione nella casistica riconducibile ai cd. “furbetti del cartellino”, è stato applicato nei giorni scorsi a Catania dal giudice del lavoro (ordinanza 15456 del 18-19 aprile 2019), che ha annullato il licenziamento disposto dal ministero della Giustizia nei confronti di un funzionario giudiziario già imputato in un procedimento penale per falsa attestazione della propria presenza in ufficio.

Nel dicembre 2017 l’Amministrazione, richiamando per relationem i capi di imputazione, e applicando l’articolo 55-quater del Testo unico del pubblico impiego (D.Lgs 165/2001, nel testo ripetutamente modificato e reso più severo dalle riforme “Brunetta” e “Madia”) aveva contestato in sede disciplinare i fatti (ripetute assenze senza timbratura del cartellino, per complessive 10 ore nell’arco di 14 giorni lavorativi consecutivi nel maggio 2017), aveva tenuto conto degli elementi di fatto indicati a propria difesa dal dipendente (ridimensionando a 7 ore e mezza le assenze dal lavoro, per un danno erariale di circa 125 euro), ma aveva negato la richiesta sospensione del procedimento disciplinare nelle more del giudizio penale e aveva infine disposto il licenziamento del dipendente, assistito dall’avvocato Caudillo (socio Agi).

L’Amministrazione non aveva tenuto conto, tuttavia, del comportamento pregresso del lavoratore (inesistenza di precedenti disciplinari e valutazioni professionali sempre positive), dell’esiguità del danno e del principio di proporzionalità rispetto alle sanzioni di temporanea sospensione inflitte ad alcune colleghe per la medesima infrazione, sia pure per un lasso di tempo inferiore. «La definitiva sfiducia datoriale che legittima il licenziamento - osserva la sentenza - deve commisurarsi anche alle circostanze del caso concreto», e «la reazione espulsiva deve sempre essere improntata al carattere dell’extrema ratio a fronte del valore costituzionale del lavoro e dei suoi legami con la tutela fondamentale della persona».

questo criterio non si oppone la lettera della legge, «dovendosi a tale norma [il ricordato articolo 55-quater D.Lgs 165/2001, richiamato nel provvedimento di espulsione] fornire un’interpretazione costituzionalmente conforme». La violazione, sostanzialmente non contestata dal dipendente, resta: perciò la sentenza, oltre ad annullare il licenziamento, si è avvalsa della facoltà riconosciuta al giudice dall’articolo 63 dello stesso Testo unico, e ha «ridetermina(to) la sanzione (...) nella sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per mesi cinque».

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